V. Colmegna e G. Zagrebelsky. La Costituzione dei poveri. Ed. Castelvecchi, Roma, 2025.

Riassunto, citazioni e spunti dal libro di Virginio Colmegna e Gustavo Zagrebelsky: “La Costituzione dei poveri”. 


Introduzione 

È alla luce della Costituzione che si giudica la legittimità delle leggi e degli atti che hanno forza di legge. La Costituzione è una norma fondamentale, al di sopra dell’ordinamento giuridico. Anche il potere legislativo viene assoggettato alle norme costituzionali. Può essere considerata, almeno in parte, la proiezione dei contenuti razionali delle religioni sul piano filosofico e morale. Ci insegna a stare dalla parte dei più deboli, di chi non ha voce, perché il bene comune cui dobbiamo aspirare è divisivo, può diventare preda di chi possiede di più e nutre maggiori interessi. Per questi motivi la nostra Costituzione può essere definita, a una lettura approfondita, una Costituzione per i poveri, per difendere e sostenere le ragioni degli impotenti contri i prepotenti; per fare in modo che le leggi abbiano una funzione emancipatrice e non codifichino gli squilibri di potere da cui derivano le grandi ingiustizie sociali. 


Capitolo 1  Orizzonte cristiano e laico della giustizia: il Vangelo e la Costituzione

 La Costituzione è il risultato di diverse confluenze politiche e ideali. È ben visibile anche il segno dell’umanesimo cristiano. È pure il frutto di una storia particolare. Si avevano alle spalle ed erano ancora laceranti le ferite della dittatura, del colonialismo, del razzismo, dell’ideologia fascista e della guerra. Occorre farla conoscere, renderla viva nel suo dettato e nel suo spirito più vivo e profondo. 


Capitolo 2 Il potere e la dignità, la beneficienza e i diritti 

Quando si passa dall’astrazione delle leggi e dai tecnicismi del diritto all’ascolto delle storie di vita vissuta da parte di chi è emigrato (articolo 10), disabile (articolo 32), povero o carcerato, allora, e solo allora, acquistano tutta la loro pregnanza i principi contenuti nella Costituzione. Possiamo renderci conto di quanto quei principi vengano calpestati, di quanta sofferenza venga generata quotidianamente dalla loro violazione. E diventa bruciante scoprire quanta indifferenza finisca per intontire un po’ tutti, distratti da tante piccole cose che ci vengono propinate come grandi e importanti. E può capitare, ad esempio, che il “bene dell’azienda” diventi il sommo bene, il bene di tutti. Senza nemmeno preoccuparsi dell’identità di chi quel bene ha interesse a definirlo e interpretarlo. In seguito all’enciclica “Pacem in terris” e al dibattito conciliare, il cardinale Lercaro richiamò la necessità di mettere i poveri al centro del rinnovamento della Chiesa nel mondo contemporaneo. La sua non fu una visione clericale e pauperista, ma il lucido riconoscimento della centralità delle persone più fragili, in una prospettiva globale, estesa a tutti i popoli della Terra. Il lavoro, secondo la nostra Costituzione, è l’antidoto alla povertà. Oggi, purtroppo, può essere povero anche chi lavora. Ci sarebbe da ragionarci sopra, in base all’evoluzione che il lavoro ha subito in questi ultimi decenni, travolto dall’innovazione, dall’automazione, dalla robotica e, ora, anche dall’intelligenza artificiale. La dignità non dovrebbe essere attribuita solo al lavoro retribuito, ma a qualsiasi impegno, purché concorra al progresso materiale o spirituale della società (articolo 4). Infatti, tutti gli esseri umani hanno pari dignità (articolo 3).


 Capitolo 3. Migranti, respingimento, accoglienza: di chi è la Terra? 

I cambiamenti climatici, l’emergenza idrica, la povertà, la fame, le guerre e le disuguaglianze costituiscono una parte delle svariate ragioni che motivano le migrazioni. Si emigra con la speranza di vivere una vita migliore. Le frontiere esistono e delimitano l’ambito dell’applicazione delle politiche di ogni Stato. Non costituiscono, però, barriere invalicabili per tenere lontano chi aspira a migliorare le proprie condizioni esistenziali. L’emigrazione, secondo l’articolo 10, è l’espressione di un diritto universale. Ogni essere umano cui non sia garantito, nel proprio Paese, l’esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto all’asilo nel territorio della nostra Repubblica. È un diritto universale, non riguarda solo chi è perseguitato politicamente. Questo riconoscimento può implicare, per cerri versi, una maggiore giustizia sociale, l’abolizione degli sprechi, del consumismo, l’attenzione a ciò che è essenziale e ha veramente valore, l’impegno per l’equità. E ancora prima, occorre considerare che la nostra cultura e le nostre tradizioni non sono superiori rispetto a quelle proprie di chi emigra, sono solo diverse. Nell’articolo 2 della Costituzione si afferma che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’essere umano. Quindi non crea questi diritti, li riconosce. Essi pre-esistono e vanno solo riconosciuti e garantiti. E, al fine di garantirli, la Repubblica richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Quindi, ognuno di noi è impegnato per creare le condizioni adatte a una vita dignitosa per tutti, in armonia con gli altri. E invece, nei confronti dei migranti, stiamo attuando una politica fatta di angherie, crudeltà e vessazioni, al fine di rendere l’impresa più difficile, più costosa e rischiosa a chi si propone di salvare le vite dei naufraghi: una politica astiosa che costringe, tra l’altro, i soccorritori a sbarcare in porti più lontani, prolungando disagi e sfinimenti. 


Capitolo 4  Scuola, istruzione e formazione, per un nuovo patto di cittadinanza. 

Siamo parte di un sistema che premia in modo esorbitante i vincenti. E così si finisce, anche senza volerlo, per punire chi resta indietro, i cosiddetti perdenti. La dignità viene schiacciata dall’ideologia del merito: l’ideologia che ha sdoganato, nel nostro Paese, la nuova etichetta affibbiata a un ministero: il ministero dell’istruzione e del merito. L’articolo 34 della Costituzione afferma che i capaci e i meritevoli hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi, in perfetta coerenza con il dettato dell’articolo 3 che si propone di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese. A proposito del merito, si sa che gli studenti che provengono da ambiti socio-economici svantaggiati ottengono risultati scadenti con una probabilità molto maggiore rispetto ai loro coetanei più fortunati. I vincenti sono davvero i più meritevoli o quelli che, per le circostanze della vita, sono partiti da condizioni di vantaggio rispetto agli altri? E che cosa è il merito? È qualcosa di cui siamo gli unici artefici o dovremmo essere grati al caso, a genitori, insegnanti, educatori….? L’inserimento dei disabili nella scuola fu una grande conquista e segnò il superamento delle scuole differenziali. Prevalevano sentimenti di solidarietà. Ancora oggi la scuola dovrebbe essere, oltre che un luogo di apprendimento, un luogo di socializzazione atto a favorire l’espressione della solidarietà, in cui si possono condividere sentimenti, aspirazioni e desideri di accoglienza. E, invece, la scuola è impoverita da una progressiva burocratizzazione, di cui sopportano il peso soprattutto gli insegnanti, così poco riconosciuti da un punto di vista economico e sociale. E pensare che dovrebbero essere i protagonisti di una missione fatta di arte, tecnica, benevolenza e gioia del dono. Se in quella professione non c’è amore, infatti, prevalgono solo problemi di retribuzione, di carriera e di noia. Occorre, perciò, con urgenza, restituire prestigio agli insegnanti. Si dovrebbe imparare e insegnare partendo dalle esperienze di vita. La scuola oggi risulta sempre più orientata all’aziendalismo e al produttivismo e, a causa di questo orientamento, rischia di non valorizzare i talenti e le originalità di ciascuno. Sembra rivolta a persone che hanno come obbiettivo il denaro più che la formazione della personalità. Tanto è vero che la meta più ambita è riuscire a lavorare nell’ambito della finanza internazionale. Si dovrebbe cambiare. Ad esempio, perché non sostituire i programmi di alternanza scuola/lavoro con programmi di alternanza scuola/società. La scuola dovrebbe diventare il luogo dove rendere l’educazione un laboratorio inter-generazionale, capace di offrire comunità anche agli adulti. Ce ne sarebbe bisogno dato che in Italia oltre un terzo degli adulti è affetto da analfabetismo funzionale, ossia è incapace di comprendere e utilizzare le informazioni che legge. Sarebbe bello, in queste scuole ideali, affrontare i problemi ecologici, climatici e quelli che ci rimandano alla necessità di adottare stili di vita diversi. La scuola dovrebbe essere un momento di vita, di gioia, non di oppressione. Deve trasmettere non tanto una quantità sempre maggiore di saperi, ma una cultura che permetta di comprendere la nostra condizione umana e ci aiuti a vivere. Si tratta di costituire uno stato interiore profondo, una sorta di polarità dell’anima che ci orienti in un senso definito per tutta la vita. La scuola è una funzione essenziale di uno Stato democratico. Più deperisce la scuola, più svanisce la democrazia. L’ignoranza è, infatti, una grande minaccia per la democrazia e porta all’autocrazia, ossia al dominio dei pochi sul “gregge”. L’ignoranza e lo smarrimento del pensiero critico sono alleati potenti dei regimi autocratici dove c’è chi comanda, mentre tutti gli altri obbediscono. E questi, meno sono colti, più facilmente sono governabili. Lo sviluppo di un’autentica democrazia, di fronte alla complessità del reale, oggi si basa sempre di più sullo sviluppo di una democrazia cognitiva che favorisca l’esercizio di un pensiero critico, capace di definire e interpretare le grandi priorità del momento storico in cui viviamo. 



Capitolo 5 Salute, cura, comunità 

L’indebolimento delle organizzazioni internazionali, come l’Onu e l’Oms, è la conseguenza di una grave miopia. Non si vede, infatti, come i problemi di salute superino i confini degli Stati nazionali e richiedano l’impegno congiunto di tutti per essere affrontati.  Il diritto alla salute non può che essere universale se si vuole che sia effettivamente tutelato. E, per essere tale, va garantita la gratuità delle prestazioni affinché siano accessibili a tutti. La privatizzazione galoppante comporta il rischio che al benessere della popolazione sia preferito il benessere dei bilanci aziendali. Ma la salute non è una merce da vendere e comprare. Ce ne rendiamo conto soprattutto oggi. Viviamo in un’epoca in cui la vita si è notevolmente allungata. Ma si è allungata anche la durata delle malattie, della disabilità e della sofferenza. Ci siamo lasciati cogliere impreparati da questi cambiamenti che richiedono nuove strategie e nuove politiche. Dobbiamo, da una parte, comprendere che vecchiaia e malattia sono elementi costitutivi della nostra esistenza. Dobbiamo, però, anche indirizzare il nostro impegno, lo studio e la ricerca perché aumentino gli anni di vita vissuta in buona salute. La nostra aspirazione non è raggiungere traguardi irrealistici nella longevità, ma vivere una vita buona, nonostante tutto, anche negli anni più avanzati, quando ci riduciamo a vestire gli ultimi panni dell’arco esistenziale, quelli più poveri e disadorni. Si potrebbe evitare tanta sofferenza. Basterebbe ricordare che, ad esempio, in Italia quasi il 20% della popolazione sopra gli 11 anni ancora fuma, il 30% è in sovrappeso, il 10% è obeso, il 30% dichiara di non svolgere alcuna attività fisica, esistono 4,5 milioni di persone malate di diabete di tipo 2  (una malattia in massima parte evitabile), 180.000 persone muoiono ogni anno di tumore (il 40% di queste potrebbe evitarlo), 700.000 bambini tra 5 e 15 anni sono obesi. Ma sembra che tutto questo interessi poco. È nato, infatti, un nuovo totalitarismo: quello del denaro. A questa oligarchia del denaro non interessano i diritti universali perché nel suo mondo ogni cosa desiderata può essere comprata e venduta. Non ci si pone il problema della giustizia e della solidarietà. E sembra davvero strano che questi super ricchi siano diventati, nella nostra società, oggetto di ammirazione e devozione proprio da parte di coloro che sono più lontani dal loro mondo e ne rappresentano, purtroppo, le vittime principali. Non si capisce come l’accumulazione così spropositata corrisponda alla spoliazione di moltissimi altri. Non proviamo invidia, ma un senso di disagio e amarezza, a causa dell’ingiustizia di cui i super-ricchi sono corresponsabili. 


Capitolo 6 Dignità e carcere: giustizia della vendetta o della misericordia? 

Stupisce che sempre più persone siano favorevoli a politiche che determinano l’allontanamento e, addirittura, l’annullamento dell’altro. Anziché creare disgusto queste politiche creano consenso. E avanzano partiti politici suprematisti che aggiornano il vecchio razzismo. Tutto questo contribuisce a erodere la democrazia fondata sul diritto, sul bilanciamento e la separazione dei poteri. La sicurezza sociale non dovrebbe riguardare solo i prefetti e il ministero degli interni, ma anche le scuole, i servizi sociali e le politiche di welfare. La detenzione carceraria, per come oggi viene subita, in condizioni di promiscuità e sovra-affollamento, implica una soppressione della dignità dei detenuti. E invece, secondo la Costituzione, la funzione della pena sarebbe la rieducazione, il reinserimento sociale. Dovrebbe offrire una spinta verso la “riemersione”. Coloro che commettono reati devono certo assumersi la responsabilità delle conseguenze. Ci sono, però, misure alternative alla detenzione: la libertà condizionata, il lavoro all’aperto, i permessi premio che comportano, comunque sempre, una limitazione della libertà. Il carcere deve avere anche una funzione interdittiva, quando è necessario. Deve impedire all’individuo di fare uso della sua libertà per danneggiare altri.  Tuttavia il carcere non va inteso tanto come pena o vendetta, ma come prevenzione della violenza. Esistono reati commessi da “poveri cristi” e reati commessi da personaggi potenti, talvolta del mondo imprenditoriale. Bisognerebbe ricordarsi dell’articolo 41 della Costituzione per cui l’iniziativa economica non può svolgersi in modo da recare danno alla salute e all’ambiente. Le persone di più elevata classe sociale, che hanno potuto fruire di un’istruzione e educazione più raffinata, non dovrebbero godere di sconti particolari in seguito al compimento di reati. Dovrebbero, piuttosto, avvertire maggiormente la loro responsabilità nel contribuire a rendere il mondo un posto migliore. 


Capitolo 7 Guerra, pace, rivoluzione 

Ci sono tanti modi diversi di pensare alla guerra. È stata concepita, persino, come elemento di elevazione, come potenza vivificatrice e motore della storia. È una concezione che si associa a quella di Stato sovrano, che implica il disconoscimento del limite nei confronti di altri Stati-nazione e l’esercizio prepotente della forza. Ma questi modi di pensare alla guerra sono propri dei potenti che la decidono. Sono molto lontani dalle concezioni di chi subisce la guerra ed è mandato a combattere sui campi di battaglia. Si dice che si deve combattere e anche morire per amore di patria. Ma tante volte si fa un uso distorto del termine patria. Che patria è quella che ti espone al rischio di morire e, ad esempio, ti costringe a subordinare la tua vita a un ideale di supremazia nei confronti di altri popoli? Abbiamo la responsabilità di promuovere la cultura della pace e della non violenza. Contro l’aggressività e la brama di ricchezza dobbiamo far apprezzare la bellezza della vita semplice, i pregi della giustizia e della pace. Infatti, tanto maggiori sono le disuguaglianze e le concentrazioni di potere, tanto maggiore è anche il rischio di guerra. Nonostante queste verità, oggi l’industria bellica esercita un’influenza sempre più grande sulle agende politiche nazionali e viene celebrata come un potente fattore di crescita del Pil. Sarebbe bello se l’agenda politica tenesse, invece, sempre ben presente la dichiarazione dell’assemblea generale dell’Onu (2016) secondo cui “ognuno ha il diritto di godere la pace in modo che tutti i diritti umani siano promossi e protetti”. Se l’Onu ci avesse regalato anche solo questa dichiarazione sarebbe, semplicemente per quest’unico motivo, un’organizzazione cui inchinarsi con rispetto e riconoscenza.